La dipendenza dall’indipendenza

La dipendenza dall’indipendenza

Ieri, con un anno di ritardo, ho deciso di lasciare il mio compagno. Quel santo del mio compagno. Mesi fa, in un periodo buio, avevo scritto qualche parola sul mio comportamento: lo stavo allontanando. In realtà mi ero allontanata io, da parecchio tempo. Forse proprio da un anno. E non dico un anno a spanne. Esattamente un anno fa, dopo l’ennesimo tentennamento non espresso, dopo una delusione un po’ più accentuata, dopo aver capito che le cose non andavano avanti, avevo manifestato (inutilmente) le mie perplessità sul realizzarsi della nostra storia.

Pochissime persone sanno chi ci sia realmente dietro questo blog. Una è lui. Posso affermare con un notevole livello di certezza che non sappia neppure se io continui o no ad aggiornare (ma senza cattiveria, soltanto perché è un’abitudine che esula dalle sue), quindi scrivo senza pensare che leggerà; devo sfogarmi. Un’altra per fortuna ha tolto il disturbo dalla mia vita (in maniera vile e infantile, soprattutto considerando l’apparente amicizia e la sua ”professione”) e da allora sto molto meglio. Miope e incurante di tutto, probabilmente non ricorderà neppure chi io sia, figuriamoci dove scrivo. La terza non si merita le mie lagne, quindi non la tedio dal vivo. Spero non abbia attivato le notifiche.

Dunque, rieccomi da sola. Come se non lo fossi stata negli ultimi tempi. Si sa, sono una persona che pretende molto da sé stessa e dagli altri (se questi altri fanno parte così strettamente della mia vita), sono intransigente. Lo ero anche prima del mio incontro con il fantastico mondo del narcisismo patologico e delle dipendenze affettive, ma prima lo ero soltanto con me stessa (il che ha cozzato di brutto con la parentesi fallimentare col padre dei miei figli, ovviamente). Il fatto è che ho fatto tanta, tanta fatica a tirarmi fuori da una situazione di merda, e a provare a tirarci fuori i miei figli, che adesso che me ne rendo conto faccio tanta, tanta fatica ad accontentarmi. Ho sempre pensato di avere fatto un buonissimo lavoro su me stessa per avere attirato un uomo così bello nella mia vita. E lo dico davvero: è l’uomo più buono che io conosca. Per molto tempo ho pensato seriamente di essere approdata in un porto sicuro, e mi sono accomodata tra le sue braccia, appoggiandomi ai suoi morbidi abbracci, pensando come una ragazzina che il resto sarebbe venuto da sé.

Successivamente mi sono resa conto di certi lati inaspettatamente immaturi della sua personalità. Di una insistente indolenza. Una irritante mancanza di iniziativa. Naturalmente, essendo la nostra una storia apparentemente sana, gli ho espresso le mie elucubrazioni (in maniera il più possibile diplomatica, stante la mia personalità). Cosa ho ottenuto? Nulla. Un iniziale rianimarsi, in maniera frettolosa e un po’ goffa (che, ammetto, lì per lì mi spingeva a volergli ancora più bene di prima), per poi riadagiarsi nelle sue rassicuranti ed annientanti abitudini.

Sono io che tengo il conto dei giorni che stiamo separati (dopo che avevi detto lo avremmo fatto insieme). Io che metto da parte ogni settimana una certa somma per le vacanze (dopo che all’inizio del 2020 avevamo deciso di farlo insieme. Inizio 2020). Io che ”nascondo” in soffitta oggetti per la casa in campagna che progettavamo di comprare insieme (o dovrei dire progettavo?). Senti, ma come mai tu non sai quanti giorni sono che non ci vediamo? perché li conti già tu; senti, ma hai messo via il soldino nel salvadanaio delle vacanze, questa settimana? ah no, mi sono dimenticato, lo faccio subito, e poi non lo fai. E via così. Stronzate. Cose di nessun conto, certo. Sommate a tanti altri indizi di noncuranza e di dare per scontata una storia che no, alla nostra età, e con quello che abbiamo passato nella vita, non è ammissibile dare per scontata.

Non è il ”tesoro mio” che mi rende felice, o parte di una coppia; non sono gli interminabili messaggi della buonanotte, non è il ”ti amo” buttato a cazzo. È la progettualità. Cosa che manca totalmente, se non nella teoria. Tutti i ”ne abbiamo parlato”, i ”l’ho detto”, i ”ci provo”, non servono. Non portano da nessuna parte. Lì per lì rassicurano, mettono a tacere, spostano l’attenzione, rimandano il problema. A lungo andare, mostrano vigliaccamente la loro inefficacia. Alla nostra età non puoi fare come i bambini e pensare che se prometti una cosa è come averla fatta. Non puoi presentarti con un anello e una proposta ufficiale, smuovermi l’anima, farmi commuovere fino al midollo, proporre… e poi sederti in poltrona, pensando con una certa soddisfazione che averlo detto predisponga di per sé la nostra vita futura, senza nient’altro fare o muovere. Non puoi sempre auto assolverti, dirti che tu ci hai provato ma non è colpa tua, accusare i tempi, i governi, le contingenze, nasconderti dietro un dito, avere sempre un buon motivo per non fare le cose, perdere tempo per dire che non hai tempo, con estrema indulgenza verso te stesso usare quella formula che tanto mi ha irritato: ”avrò sbagliato, ma…”

Nel frattempo, io mettevo da parte soldi e oggetti per i noi del futuro. Ecco, io ora so che non c’è quel futuro. Solo un susseguirsi sempre uguale di presenti stagnanti. Non me lo merito, non ce la faccio. Lo so, la vita scorre ugualmente, non serve disperarsi. Ho una vita, a prescindere dai nostri fallaci progetti. Ho un lavoro, ho due figli, ho un ex marito psicopatico da gestire, ho i miei sogni di gloria. Ho il mio passato. Fatto di errori, di disperazione, di famiglia disfunzionale, di sofferenza, di ideali, di speranze. Per una volta avrei voluto contare davvero per qualcuno. Avevo una voglia infantile di qualcuno che si occupasse di me. Da troppo tempo ormai vedo le cose andare sempre nello stesso modo. con una persona in più di cui occuparmi. Che poi, per carità, non protesta nemmeno se non lo faccio o lo faccio malamente. E anche questo mi irrita: il lasciar correre tutto, come se non importasse. Non posso essere meno importante del sugo di un arrosto.

Piove dalle prime ore di questa giornata. Lo so, perché quando ha iniziato a piovere ero già sveglia. Forse non ho mai dormito. La tv era rimasta accesa, l’ho ascoltata tutta notte. Poi, si è messo a piovere, un ticchettio quasi gentile, quasi come le sue dita sulla mia schiena quando mi abbracciava. Mi sono girata sotto al piumone, verso il suo lato. Tempo fa mi sarei appoggiata alla sua morbidezza, e lui dormendo mi avrebbe preso la mano. Ci davamo spesso la mano, la notte. Un gesto che credevo fosse terribilmente affiatato, di una vicinanza e di un affetto impensabili, ma che ora vedo come un disperato aggrapparsi di bambini mai cresciuti, di disperata sete di amore. Mi sono alzata, erano le 3 di mattina. Ho fatto il primo caffè, ho riordinato casa, ho passeggiato con il cane, sotto una pioggia che nel frattempo era diventata finissima ma insistente. Tornata a casa, con pazienza e un po’ di masochismo, ho usato la funzione ‘cerca’ tra i messaggi di wa. Drammaticamente, mi sono apparsi gli stessi messaggi (e qualche vocale) che ho scritto, ciclicamente, nei mesi passati. L’ultima volta, la definitiva, ieri. Un anno esatto fa avevo capito (e me lo aveva confermato all’epoca la mia psicologa) che non sarebbe mai cambiato niente e che la sua decisione, lui, l’aveva presa pur non rendendosene conto. A maggio gli dicevo che era l’ultima volta che gli avrei ripetuto le stesse cose. Lui, scherzando con una certa temerarietà, mi aveva detto che dovevo smetterla di cercare di lasciarlo con cadenza mensile. E io ho smesso di toccare l’argomento, me lo sono imposto. Ho pensato di lasciar scorrere, far fluire, non oppormi all’evidenza, ché fa solo male alla salute. Di godermi quello che di buono c’era: il suo amore, il suo affetto, la sua gentilezza, la sua presenza in punta di poltrona. E ho vissuto una storia da pensionati (no, non mi manca la roulette russa del rapporto dipendente, non mi manca l’effetto montagne russe, tantomeno le emozioni a mille. Amavo la tranquillità del nostro amore, la consapevolezza della sua onestà e del suo esserci sempre. Non è questo che mi spinge a prendere questa decisione). Anche tapparmi la bocca non è esattamente non oppormi, non è lasciar fluire. Mi ha fatto male.

La sua dipendenza affettiva, che lui ha sempre negato quando gliel’ho accennata, spingendolo timidamente a parlarne con la sua psicoterapeuta, mi appare ora in tutta la sua drammaticità. Lo so, è spietato da parte mia riconoscere dipendenza affettiva negli altri. Non se ne guarisce mai completamente, credo, ma esserne consapevoli è un passo avanti non da poco. Negarlo, è mortale. Spinge te stesso e gli altri a restare impantanati. Stare fermi, è mortale. Amoremio, tesoro del mio cuore, uomo bello. L’omone della mia generazione migliore che io abbia mai conosciuto. Non mi hai mai permesso di aiutarti, questo fa male, è doloroso ma so che non si può aiutare chi non riconosce di avere un problema. Mi rendo conto adesso che le cose che ho fatto per te, pensando di far bene, per te sono state imposizioni. E ti sei rifiutato, più o meno consciamente, di cambiare. Persino indossare una sciarpa nuova ti è impossibile, sostituendo (anche solo parzialmente) quella vecchia e rassicurante sciarpa che hai sempre usato. O leggere un libro che ti ho passato perché è piaciuto a me, solo per curiosità. O cominciare qualcosa insieme, per sentirci più vicini (com’è…? ”distanti ma uniti”… non è così? una cippa). Posso superarlo, sapendo che non lo fai con cattiveria, ma mi ritraggo. Sono costretta ad affrontare il mio bisogno di riconoscimento, non ne sono ancora venuta fuori, ma nel frattempo mi rintano. Ho rinunciato pian piano a tutti i pensieri che avevo per te, prendendo coscienza del fatto che tu, seppur apprezzandoli – almeno lo spero – poi non riuscissi a integrarli nella tua routine, e mi sono ritirata sconfitta e un po’ delusa, perché mi costringeva a non essere di nuovo me stessa. Ho conosciuto la tua durezza nascosta sotto uno strato di apparente sofficità. Sei stato tu a scoprire definitivamente il mio essere una Persona Altamente Sensibile (PAS, ne ho parlato qui: https://hosposatounnarcisista.wordpress.com/), ora non sottovalutare le mie intuizioni, il mio sentire particolare. Sei una aragosta al contrario: fai sembrare di essere accomodante, ma sei inflessibile come l’acciaio quando una cosa non ti va. Senza, beninteso, dirlo chiaramente. Che sarebbe molto più facile per tutti, ma tu non sei una persona facile. Affascinante, sì, e terribilmente difficile.

All’inizio ho scritto che mi ero allontanata già da un po’. Lui no, non si è mai allontanato, lui c’è sempre, nella sua rassicurante costanza nel chiamarmi ogni giorno, nell’ascoltare i miei sproloqui sulle difficoltà al lavoro e le mie disperazioni con i figli adolescenti o col loro padre narcisista patologico. L’ascolto supino di tutto ciò che colpevolmente gli vomitavo addosso. Lui diceva che gli faceva piacere. Ora penso che la mia voce fosse una specie di accompagnamento delle sue giornate, come una radio a basso volume, che non importa se non senti proprio tutto quello che dicono, e che non importa se dopo qualche ora non ti ricordi di cosa hanno parlato. Sempre, beninteso, sapendo di sintonizzarti sulla stessa stazione. A quell’ora c’è la tale trasmissione: più o meno parlano sempre di quegli argomenti. Poi, le mie rimostranze. Poi, il suo riattivarsi brevemente. Fortunatamente, quasi sempre i miei rimbrotti erano accompagnati da una sua risata che alleggeriva tutto.

Non c’è un altro uomo simile, nel mondo. Di sicuro non nel mio mondo. Ma adesso sto troppo male per tirare su anche lui. Lui, che sta attraversando un periodo difficile (lui, che si crea difficoltà anche dove non ci sono). e sono meno egoista a lasciarlo che a continuare così. La nostra situazione non mi permette di aiutarlo né di stargli vicino in nessun modo che non sia un messaggio o una telefonata, e continuare così non ha senso. Non sentire più il suono delle notifiche dei suoi messaggi è veramente brutto. Vederlo online e sapere che non scrive a me è straziante. Tempo fa gli dissi che preferivo un colpo secco a uno stillicidio mortale, ed è vero. Vorrei che questa sofferenza servisse a far cambiare le cose, a scrollarlo, a fargli rendere conto che non può continuare a stringersi nelle spalle scusandosi per tutto perché non è colpa sua. Purtroppo non ho la vocazione materna nemmeno con i miei figli, figuriamoci con lui. Non so più quante volte gli ho detto che ho imparato la solitudine, ho imparato a fare da sola tante cose, e soprattutto a non aspettarmi niente dall’esterno. Quante volte gli ho detto che voglio un compagno alla pari, o niente, sentendomi rispondere ”sì, sì, ho capito”… Ho provato con impegno, con un impegno durato due anni e mezzo e in condizioni avverse, a superare traumi, cambiare idee, prendere nuove strade. Forse una cosa si può dire: difficilmente mi arrendo. Ma davanti a una persona arresa, mi sento come Atreyu nelle Paludi della Tristezza. Adesso fa male, ma ti devo lasciare. Ho la responsabilità di due creature da crescere, ancora per qualche anno. Qualche giorno fa il mio terapeuta, avendo capito al volo quel che con vergogna gli stavo raccontando (e cioè che nel periodo delle Feste spesso ho guardato con sguardo cupido la ringhiera del terrazzo, e mi ha trattenuta soltanto l’idea di non rovinare per sempre il Natale a mia figlia; non gli ho detto che era già successo che stessi davanti alla finestra spalancata con lo stesso intento e lei all’improvviso mi sia venuta a cercare…), mi ha detto con un mezzo sorriso che non posso farlo, se non altro per non lasciare i figli con quello là (intendendo il padre, le cui dinamiche lui conosce molto bene).

Avevo creduto davvero che tu, prima o poi, avresti fatto fisicamente parte di questo mondo, ma devo arrendermi all’evidenza: tu non vuoi, hai paura di lasciare la tua tana, anche se si sta sgretolando. Ti vorrò bene e ti ringrazierò per sempre per tutto quello che hai fatto per me. Ma fa troppo male anche assistere alla tua lenta morte da sepolto vivo. Perdonami se puoi.

2 pensieri su “La dipendenza dall’indipendenza

Lascia un commento